L'ARMONICA DI SERSE - RENATO NOVA
Lungo il viale che conduce al casolare di Serse sono fioriti gli
asfodèli. Questi fiori, dal lungo stelo si allungano' dal ventre della
terra, per risalire verso il cielo, intriso di rugiada. A farci caso, se la
vista e il naso lo consentono, ci si accorge anche della presenza del
mirto, dal delizioso e intenso aroma. E5 accattivante a tal punto, da
spingere Serse a metterci il naso tra le minute foglie, per godere
ancora di più della sua fragranza. Basta solo aver l'accortezza, di
muovere con rapido gesto della mano, le foglie vicine, onde
maltrattare e allontanare il gaudente calabrone, posato lì vicino. Non
va trascurato neppur di menzionare, avendo l'accortezza di ,non
esagerare, quei minuscoli fiorellini violacei che paiono stelle nel
firmamento. C'è anche Barchetta, il fidato cagnolino color nocciola,
che ti viene incontro non appena l'odore della pelle assume
un'intensità superiore al mirto. Lui abbaia, lo fa per gioco, tè lo dice
così com'è capace, muovendo la coda controvento e ti da il
benvenuto. Chiuque entri a trovare Serse, per qualsiasi motivo, trova
il piacere dell'accoglienza. Accostato dietro le tende Serse ti osserva,
poi ti viene incontro, porgendoti la mano. La stringo e mi accorgo
della sua durezza, solcata e intrisa com'è da vene, che affiorano dalla
cute, come rigagnoli in piena, dopo una lunga pioggia "Come va
Serse?" chiedo io "Come sempre. Attendo insieme a Barchetta e a lei
l'ultimo giorno." Lei è l'armonica a bocca, questo piccolo strumento a
fiato capace di produrre delicati suoni. Sono come due angeli, con
un'ala soltanto e così possono volare solo se restano abbracciati.
Tempo addietro, udii Serse suonare l'armonica ed accompagnare la
danza di una giovane ragazza la quale, avendo conosciuto questi, lo
voleva mettere alla prova, ed accertarsi della sua abilità. Mentre
l'armonica accarezzava l'aria con melodia, la ragazza volteggiava con
il suo corpo lungo la stanza, sfiorava il tappeto con leggiadria di
movimenti, quasi ad indicare che la musica e la danza risvegliavano
sopite passioni ataviche, quando si possedeva solo qualche
rudimentale strumento ed il nostro passo di danza.
Mi hanno raccontato che il poeta mentre leggeva le sue poesie, aveva
il piacere d'essere accompagnato nel sottofondo, dal suono
melanconico dell'armonica di Serse, O come quella volta, sempre mi
han riferito, che improvviso lì per lì un vivace duetto con un piccolo
tamburino. Ne ricordano tutti un gran bene "Attendo sempre l'ultimo
giorno" mi mormora Serse. E mentre lo diceva, i suoi occhi
lacrimavano un po', e queste minuscole lacrime gli annebbiavano
.appena la vista, brulicavano dentro i suoi larghi occhi ancora vivi,
nonostante la sua età. Queste lacrime anziché scendere lungo il viso,
rimanevano aggrappate al bulbo e abbarbicate alle ciglia, rimanendo
in bilico e pronte al salto "Mi suoni qualcosa?" gli chiesi. Non mi
rispose, tolse dal cassetto la sua amata armonica e s'inventò in
quell'istante una dolce melodia. Talvolta si interrompeva, non perché
non rammentasse più la melodia, bensì perché le lacrime, con forza,
vinta la resistenza delle ciglia, si erano riunite a ridosso del naso e
colavano sin giù dentro le feritoie dell'armonica, provocando il tocco
del singhiozzo. Ma fu lo stesso, anche se interrotto da questi singulti,
un bei J "udire. Tant'è che persino Barchetta abbaiava e a suo modo
applaudiva il suo amico Serse. Me ne andai salutandolo, mentre
ripercorrevo il lungo viale. Fu l'ultima volta che lo vidi.
Seppi più avanti, che l'ultimo giorno era arrivato.
L'ULTIMO DEI SOLDATI - RENATO NOVA

Venne la notte. A furia di cercare tra il chiaro del giorno
i propri pensieri e la strada smarrita, il soldato Zeno è sfinito.
La sosta tra il riflesso della luna, pare un obbligo per lui,
abituato com'è da tempo, a godere del poco che la vita è
stata capace di concedergli. Aveva raccontato la sua vita
solo a sé stesso; non trovava, date le molte circostanze,
alcuno disposto ad ascoltarlo, a sentire le sue pur deboli
ragioni. La lunga guerra civile tra due popoli che dapprima
convivevano sotto lo stesso cielo, ha consumato oltre alla
vita, anche il tempo trascorso. Si accascia sul prato, ancora
umido del sudore degli uomini. La guerra aveva inteso porre
fine, o almeno lo si credeva, a questa contesa che vedeva
opposte le due fazioni: la Giustizia e la Pace. L'una
anteponeva innanzi a tutto la Giustizia come valore assoluto,
da cui tutto dipendeva, l'altra scalzava dinnanzi a sé questo
valore, per lasciar posto al supremo principio della Pace.
Anche se in nome di quest'ultima, poi, nessuno riuscì a
capire come fosse entrata in guerra. E' strana a volte la vita.
Vedi il caso. Ha questo di straordinario: avviene per caso.
La natura poi gioca per caso col caso, insieme si divertono,
fan carezze e scintille e poi ti chiedono: "Non è facile far
andar d'accordo la Pace e la Giustizia. Se vuoi mantenere la
pace devi sapere chiudere un occhio su certe ingiustizie e
sopportarle; se vuoi ottenere invece la Giustizia, devi essere
pronto a menar la guerra". Anche per difenderla solo.
Zeno non si da pace per essere entrato in guerra nel partito
della Pace. Il fatto è che non sopportava "quelli della
Giustizia". Un fruscio disturba i pensieri costringendolo a
confondersi attoreigliato alla sua ombra, che la luna ha
ancora il piacere di regalare a quest'uomo sopravvissuto a
quel disastro di cui la guerra è stata capace. Un'ombra fa
capolino sul prato, disegnando sagome indistinte, ma
turbate, lacerate da voci che si impongono violente: "Chi è là?"
Si ode quasi all'unisono. "Sono Giano della Giustizia. E
tu?" "Sono Zeno della Pace. E forse siamo gli ultimi
esemplari della razza umana rimasta sulla terra, poiché non
vedo che fuoco e non odo che il suono del fuoco che arde".
I due corpi si gettano nel fango, questo misto di terra e
rugiada sudata capace solo di sfidare l'aria e il fuoco. Tanto
era il fango, terra madida solcata un tempo da uomini ebbri
nell'assalire l'altro, il diverso, incapace di divenire uguale. E
questo fango si appropriava anche del sudore di questi due
uomini, avvoltisi l'uno all'altro: "Ti ho odiato come ho
odiato tutti voi della Pace. Io soldato della Giustizia ho
appreso questo dai miei avi. Noi della Giustizia siamo la
verità e la verità può uccidere chi non la riconosce".
"Io invece non riesco ad odiarti. La Pace mi impone ancora
di ascoltare e io ti ascolto. Non c'è la verità dentro di me,
bensì la legge. Ed è la legge che rende liberi, mentre la
libertà da sola opprime. Un tempo noi uomini eravamo tutti
amici, vivevamo sulla stessa terra, poi l'odio ci ha condotti
qui e designerà ora chi tra noi due sarà infine il vincitore e il vinto".
E detto questo si alzarono, per fronteggiarsi meglio.
"Cos'è questo luccichio che proviene dal tuo braccio"
chiede Zeno. "E' la metà di un bracciale. E' il symbolon,
un simbolo di amicizia tra due persone, una testimonianza,
un fatto che neppure le lunghe distanze possono annullare.
Neppure t'odio". Risponde Giano: "Aspetta... anch'io
possiedo qualcosa di simile, l'ho cucito sul fondo dei
pantaloni, eccolo qui.. lo strappo, guarda... è la metà
identica alla tua . Ma allora... noi due dobbiamo riconoscere ...".
L'odio si squaglia, è veleno che rimedia, che non addolora più;
è di più, perché è un'amicizia ritrovata ,
riavuta dal destino cinico che nulla può contro il simbolo.
"Solo ora..." affiora dalle labbra di entrambi "troppo tardi,
santo cielo". E fu allora che Zeno si inginocchiò e scivolando
trascinò nel fango anche Giano: "Ti chiedo perdono Giano, restituiscimi la tua amicizia" .
"Cosi sia" rispose Giano abbracciando Zeno.
Venne la pioggia che lavò i loro corpi.
Le loro anime, redente, lo avevano già fatto.
